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Chi ha vinto davvero la battaglia dell'osceno?

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Il 31 maggio 1949, per i moralisti e i bigotti d’Italia, fu il giorno di Waterloo.

seduzione_n1_1948_coverQuel giorno, il tribunale di Milano mandò assolti ventitré imputati di oscenità, in gran parte edicolanti, che gli zelanti custodi della pubblica morale avevano trascinati a processo per aver “detenuto ai fini di commercio, distribuito e venduto la rivista Paris Hollywood contenente illustrazioni oscene”.

I giudici ritennero che invece quelle immagini “non offendano attualmente il comune senso del pudore della maggioranza”, che fossero tollerabili e non troppo diverse da quelle di altre riviste di cinema e spettacolo.

Una mazzata tremenda, per i censori. Un fulmine a ciel sereno. Fino a quel momento, perfino in quel medesimo tribunale due settimane prima, le avevano vinte tutte.

Non si capacitarono. Cercarono di convincersi che fosse una bizzarra eccezione: ma i più perspicaci capirono che invece era l’inizio della fine.

Fu così. Quella che sembrava una barriera invalicabile a tutela dei valori morali più sacri sarebbe crollata rovinosamente, sentenza dopo sentenza, nel giro di pochi anni.

In un libro documentato e intelligente, L’immagine oscena, Angelo Pietro Desole ci racconta oggi la storia giurisprudenziale, morale e politica della grande svolta, delle sue premesse, e delle sue (vedremo, anche quelle abbastanza sorprendenti) contraddizioni.

Una storia italiana, una storia della mentalità italiana che si svolse nei decenni tra le rovine della guerra e l’esplosione del benessere, quando un paese intero marciò a grandi passi dalla tradizione alla modernità, dai valori atavici ai valori del consumismo.

Una storia che sarebbe piaciuta a Pier Paolo Pasolini: che però ne avrebbe tratto un insegnamento un po’ diverso da quello che ci aspettiamo. Come fa del resto l’autore di questo libro.

Il-comune-senso-del-pudoreIl cui materiali vengono essenzialmente dagli archivi (ricchissimi di documenti, sentenze, ritagli di giornale) del grande sconfitto: il fronte dei pudibondi.

Desole ha setacciato i faldoni del Segretariato per la moralità, una struttura legata all'Azione cattolica, fondata nell'ottobre del 1923 e diretta a partire dal 1937 e fino a tutti gli anni 60 “con titanico zelo” da un protagonista tanto potente quanto dimenticato della nostra storia sociale: l'avvocato Gino Gavuzzo, infaticabile croco della morale apprezzato e sostenuto dalle più alte gerarchie vaticane, su su fino a papa Pio XII che volle pubblicamente ringraziare “i volenterosi inquisitori”, disse proprio così, che dedicavano le loro giornate alla caccia senza quartiere di ogni impudicizia.

Un ben curioso mestiere, a pensarci bene, quello dei delatori beghini, il cui compito era accumulare prove per poter accumulare denunce, e per farlo erano costretti (che sacrificio, poveri) a passare intere giornate nei cinema più sordidi, a comprare pacchi di vergognose rivista dell’edicolante del paese, a sbirciare e fotografare nudità esposte nelle spiagge. L’eroico sacrificio del guardone virtuoso.

Il loro lavoro sembrò, per qualche anno, essere premiato. Il Codice Rocco, la normativa fascista del 1930, offriva tutte le armi necessarie per demolire il satana dello sguardo lascivo non solo come corruttore della pubblica moralità ma come vero e proprio pericolo per la pubblica sicurezza.

Ma qualcosa poi accadde. Fu promulgata la Costituzione italiana. Con quegli articoli sudati e faticosi sulla libertà di opinione, di parola e di stampa (Desole ne racconta la tormentatissima genesi in Assemblea Costituente, una discussione sorprendente in cui a volte comunisti e democristiani si scambiavano le parti).

La pubblica morale e la libertà di espressione erano in rotta di collisione. E molto presto una generazione di giudici liberali e forse ansiosi di dimostrarsi affrancati dalla sudditanza di un regime ancora fresco nella memoria, cominciò a privilegiare la seconda.

6866728611_721b6ff49c_oFu una lotta titanica, che mise in crisi la struttura dello Stato. Una polizia solerte e severa sequestrava i giornali (fino a 40 quintali di carta alla settimana solo a Milano negli anni del fervore) colpevoli di alimentare il “sozzo diletto di immaturi o di degenerati” e l’”immonda speculazione di lenoni intellettuali”, una magistratura tollerante li dissequestrava e ne assolveva editori e venditori.

Non pensiamo che fosse solo un problema da bacchettoni. Dietro le denunce per oscenità si profilava una enorme questione di libertà: la battaglia sulla possibilità di sequestro, perfino preventivo, della stampa da parte dell’autorità di pubblica sicurezza. La censura colpiva i giornaletti licenziosi, ma l’obiettivo era la stampa di opposizione, negli anni della guerra fredda e del monocolore filoamericano.

Che cosa scardinò quel tentativo? Un aggettivo. Il senso del pudore oltraggiato doveva essere quello “comune”. Cioè quello comunemente accettato dalla maggioranza in un certo momento. Dal cielo delle virtù immutabili, il pudore discendeva dunque nella storia, si faceva mutevole, soggetto a cambiamento, evoluzione.

E qui, è l’acuta tesi del saggista, scatta un curioso circolo vizioso. Che cosa fa cambiare il senso del pudore? L’abitudine a certe visioni, che poco a poco diventano più consuete e più tollerabili. Che cosa crea quella abitudine? L’assuefazione alla presenza massiccia di quelle immagini nell’ionosfera quotidiana. Insomma, alle pubblicazioni “oscene” bastava, per vincere, semplicemente esistere, e insistere.

Esattamente quello che avvenne. Quella definizione, di “comune senso del pudore”, che i moralisti accettarono pensando che fosse un baluardo, fu la breccia. I giudici “cominciarono a storicizzare” la scandalosità delle epidermidi femminili esposte alla vista, e ad ammettere come legali sempre più centimetri di avanzamento della frontiera del costume (da bagno).

Furono decisioni prese nel foro della coscienza dei singoli magistrati. Non esistevano periti in grado di misurare il superamento o meno di quella soglia di pudore “sociale”. Ogni giudice interrogava solo la propria coscienza.

Che era, ora bisogna dirlo, una coscienza maschile. Sui banchi dei tribunali, pochissime donne in quegli anni cruciali della battaglia dell’osceno. E quegli uomini ragionavano da uomini.

Anche quelli che assolvevano, lo facevano spesso descrivendo l’oggetto delle loro sentenze con una prosa che trasudava la inconfessabile eccitazione dell'estensore: “…nudi di giovani donne che sciabolano le gambe luminose, ondeggiando fianchi graziosi e floridi seni giovanissimi---“.

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Due pagine di "Paris Hollywood, n. 46, 1948

Viceversa, i bigotti sbagliarono tutto. Troppo fiduciosi nella universale stabilità dei loro valori, non ammisero eccezioni, sfumature, gradazioni nei loro giudizi di oscenità. Scagliandosi contro copertine veramente al di fuori di qualsiasi colpa, finirono per “finisce per ammontare di oltranzismo ogni istanza moralizzatrice”.

Delegando allo Stato il ruolo di unico depositario della morale facevano sentire gli italiani ancora minorenni da tutelare; attribuendo alla polizia il potere assoluto di vita o di morte sui giornali e sulle immagini, evocarono troppo vividamente un regime che gli italiani volevano dimenticare di aver applaudito.

Una storia a lieto fine, no? Diremmo tutti. Ha vinto la libertà... Ma è giusto invece aprire una porta al dubbio critico. Quella titanica battaglia di maschi non ebbe un esito femminista.

Fu solo il braccio di ferro fra il maschilismo del dovere di occultamento del corpo femminile e il maschilismo del suo obbligatorio svelamento. Fra burqa e bikini, diremmo oggi.

Certo, vinse la libertà dal moralismo di stato, ed è una buona cosa. Ma vinse anche l’affermazione dei diritto maschile si sguardo sul corpo delle donne: la donna spogliata, la donna oggetto, la donna gadget furono legittimate mettendole sotto l’ombrello di un principio costituzionale, la libertà di espressione.

Un principio che tutelava chi quelle immagini le produceva, e chi le consumava. Nessun diritto di parola invece per chi di quelle immagini era l’oggetto. Le donne.


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